La sentenza n. 24823 depositata l’8 dicembre 2015, con cui la Cassazione a Sezioni Unite (relatore Cappabianca) ha negato l’esistenza di un generale diritto al contraddittorio del contribuente nei confronti dell’Amministrazione Finanziaria, ha una lunghezza inversamente proporzionale al reale approfondimento della questione e alla persuasività della decisione assunta.

Ci troviamo di fronte a ben 48 pagine, in buona parte occupate da una scolastica elencazione di precedenti, funzionale a dimostrare perché la precedente giurisprudenza della stessa Corte – che in diverse occasioni ha affermato quel che le Sezioni Unite oggi negano  - non sarebbe in realtà espressiva di una generalizzata espansione della garanzia del contradditorio endoprocedimentale. Eppure si tratta di precedenti dal tenore chiarissimo; in particolare, le stesse Sezioni Unite avevano affermato, non più tardi di un anno fa, che «la pretesa tributaria trova legittimità nella formazione procedimentalizzata di una “decisione partecipata” mediante la promozione del contraddittorio (che sostanzia il principio di leale collaborazione) tra amministrazione e contribuente (anche) nella “fase precontenziosa” o “endoprocedimentale”, al cui ordinato ed efficace sviluppo è funzionale il rispetto di comunicazione degli atti imponibili. Il diritto al contraddittorio, ossia il diritto del destinatario del provvedimento di essere sentito prima dell’emanazione di questo, realizza l’inalienabile diritto di difesa del cittadino, presidiato dall’art. 24 Cost., e il buon andamento dell’amministrazione, presidiato dall’art. 97 Cost.» (Cass. Sez. unite, n. 19667/2014, relatore Botta).

Dopo la “sfilata” dei precedenti, non poteva ovviamente mancare quella delle singole norme che prevedono il diritto al contraddittorio, esame che la Corte conclude con un cinico e fallace ubi lex voluit, dixit: non esisterebbe dunque, per le Sezioni Unite di fine 2015, un generalizzato diritto del contribuente ad essere sentito prima che l’Amministrazione adotti nei suoi confronti un provvedimento autoritativo sfavorevole, fuori dai casi espressamente previsti.

Si tratta di una decisione che riporta l’orologio all’indietro di almeno trent’anni, a prima della legge sul procedimento amministrativo, dello statuto dei diritti del contribuente, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e di numerose pronunce della Corte di Giustizia sul diritto al contraddittorio.

Eppure il procedimento di “estrazione” di un generalizzato principio del contraddittorio a partire dalle (numerose) norme che lo sanciscono o dai valori che innervano l’ordinamento non era particolarmente difficile: c’era l’aggancio con le norme dello Statuto del contribuente, come il principio di collaborazione, art. 10, o quello che sancisce l’obbligo di consentire al contribuente di far valere le proprie osservazioni a seguito del processo verbale di chiusura prima di emettere l’accertamento, che poteva essere senza soverchie difficoltà esteso alle indagini condotte “a tavolino”, visto che nel contesto dell’art. 12 (“Diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali”) la locuzione “verifiche fiscali” non necessariamente doveva essere fatta coincidere con gli “accessi ispezioni e verifiche” presso la sede del privato, ben potendo essere considerata sinonimo di “controlli fiscali” (a nulla rilevando che molti dei commi di cui si compone il citato art. 12 si riferiscano effettivamente alle verifiche “sul campo”). Oltretutto, è proprio nelle verifiche “a tavolino” che più sussiste l’esigenza di un contraddittorio col soggetto sottoposto a verifica; negli accessi e ispezioni presso la sede del contribuente vi è infatti una interlocuzione molto stretta con quest’ultimo, sancita anche dalla redazione dei verbali giornalieri delle operazioni compiute dai verificatori, delle domande fatte e delle risposte ricevute; al contrario, nei controlli “a tavolino” il contribuente potrebbe trovarsi a ricevere un accertamento esecutivo per tutta risposta di una produzione documentale – magari effettuata da terzi! – o della risposta a un questionario, senza aver potuto mai interloquire con l’Ufficio finanziario e prospettare le proprie ragioni nei confronti dell’ipotesi accusatoria, che sarà conosciuta per la prima volta soltanto a seguito di un atto già esecutivo, suscettibile di cristallizzarsi se non impugnato entro uno stretto termine di decadenza

La Cassazione aveva inoltre l’aggancio con l’art. 24 e 97 della Costituzione italiana. Soprattutto, aveva a disposizione la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che all’art. 41 , sul diritto di ogni individuo ad essere ascoltato prima che nei suoi confronti venga adottato un provvedimento individuale che gli rechi pregiudizio, nel quadro di una norma sul “Diritto ad una buona amministrazione”, a sua volta inserito in una Carta che ribadisce i “diritti derivanti dalle tradizioni costituzionali” dei Paesi membri.

E invece la Corte ha ritenuto che tale diritto, di matrice comunitaria, debba essere limitato alle materie di competenze dell’Unione, escludendolo per le imposte “non armonizzate” (cioè quelle diverse da Iva, accise e tributi doganali). Senza rendersi così conto che la riserva di competenze dell’Unione Europea non impediva affatto l’estensione di un principio (quello al contraddittorio endoprocedimentale) incluso in una Carta eurocostituzionale che ribadisce il diritto alla vita, alla integrità delle persone, alla salute, alla libertà e alla sicurezza, e così via, cioè a diritti dei singoli cittadini europei, la cui portata non può essere limitata, se non producendo esiti grotteschi e sconcertanti, in funzione del riparto di competenze tra Unione e Stati membri.

Tutto questo senza nemmeno considerare che ritenere estranee alla competenze dell’Unione europea le imposte dirette, non armonizzate, è ormai un punto che si potrebbe seriamente discutere, posto che deve comunque essere perseguito il “ravvicinamento delle legislazioni”, che la Corte di Giustizia vi incide pesantemente – non importa se in via indiretta - attraverso le sue pronunce sui cd. “limiti negativi”, e che l’Unione se ne occupa da molto tempo, come dimostrano ad esempio la direttiva fusioni o quella sui dividendi intracomunitari, o ancora quella sulle royalties o lo scambio di informazioni, tutte riferibili (anche) al settore della fiscalità diretta.

L’odierno atteggiamento dei nostri giudici di Cassazione è poi ancor più incomprensibile se si considera l’estensione tante volte fatta del principio del “divieto di abuso del diritto”, di derivazione comunitaria, anche alle imposte sul reddito, o alle vere e proprie “creazioni” per via giurisprudenziale di obblighi per i contribuenti che palesemente non sussistevano, distillati da principi giuridici ricavati da norme costituzionali. Qualche anno fa le Sezioni Unite non si sono certo fermate davanti all’esistenza di una norma antielusiva applicabile solo a certe imposte e a certe operazioni, priva di portata retroattiva, per estenderne in modo dirompente la portata a tutti i casi – passati, presenti o futuri - di “abuso del diritto”, ricavando direttamente un tale principio dall’art. 53 della Costituzione, cui si può far dire tutto e il contrario di tutto. La Corte in quell’occasione non ha alzato le mani, non si è arresa di fronte all’inerzia del legislatore, non ha opposto un “ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit”: ha invece dimostrato di ben conoscere la possibilità di estrapolare principi giuridici a partire da singole norme espresse o dai valori presenti nell’ordinamento, ma evidentemente  quest’operazione le riesce più agevole quando i principi operano a svantaggio del contribuente, molto meno quando si tratta di farli operare a suo favore.

Non possiamo sapere (sospettare, questo sì) se le Sezioni Unite siano state mosse da una esigenza di cassa, dalla volontà di non provocare l’annullamento di molti accertamenti già emanati senza attuare alcun contraddittorio con il contribuente. Forse i giudici hanno pensato che il contraddittorio endoprocedimentale sia in fondo poco importante, se non un orpello inutile; certamente hanno espresso la preoccupazione per un utilizzo formalistico e strumentale dello stesso da parte dei contribuenti, per eccepire la nullità di accertamenti emessi inaudita altera parte (curioso come il riconoscimento di un diritto, in materia tributaria, si accompagni sempre al sospetto di un suo possibile “abuso”).

Eppure la stessa Cassazione aveva la soluzione a portata di mano: sarebbe infatti bastato estendere a tutti i tributi quel che la Suprema Corte ha affermato per i tributi “armonizzati”, per i quali, sulla scia della posizione della Corte di Giustizia , “la violazione dell’obbligo del contraddittorio endoprocedimentale da parte dell’Amministrazione comporta in ogni caso, anche in campo tributario, l’invalidità dell’atto, purché, in giudizio, il contribuente assolva l’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere, qualora il contraddittorio fosse stato tempestivamente attivato, e che l’opposizione di dette ragioni (valutate con riferimento al momento del mancato contraddittorio), si riveli non puramente pretestuosa e tale da configurare, in relazione al canone generale di correttezza e buona fede ed al principio di lealtà processuale, sviamento dello strumento difensivo rispetto alla finalità di corretta tutela dell’interesse sostanziale, per le quali è stato predisposto”.

Oltre che sul piano dell’equità e della scarsa sensibilità per valori che si credevano ormai acquisiti all’ordinamento, la pronuncia della Corte appare criticabile pure sul terreno dell’efficienza, dell’analisi economica del diritto, dell’esigenza – cui pure i giudici della Corte dovrebbero essere sensibili – di deflazionare il processo tributario. L’esperienza dimostra, infatti, che l’interlocuzione con il contribuente nel corso dell’istruttoria o al più tardi al termine della stessa, la prospettazione delle reciproche argomentazioni, la possibilità data al privato di chiarire la sua posizione, presentare memorie difensive e/o ulteriori documenti rispetto a quelli ad esso richiesti, e così via, aumenta le probabilità che si giunga a una soluzione condivisa, ad una definizione della lite quando la stessa è solo allo stato potenziale, evitando lo sbocco processuale.

Alcuni Uffici finanziari, consapevoli di questi vantaggi del contraddittorio, già lo sperimentano in concreto, coinvolgendo il contribuente nell’istruttoria o comunque consentendo e valorizzando le sue interlocuzioni durante o al termine della stessa, anche se la verifica si è svolta “a tavolino” e non vi è la redazione di un “processo di chiusura” dell’istruttoria. La sentenza della Corte avrà invece l’effetto (almeno, fino alla prossima pronuncia di segno opposto, o a un improbabile intervento del legislatore) di bloccare questo processo evolutivo, che invece avrebbe potuto essere accompagnato e favorito senza necessariamente prevedere come obbligatorio, in ogni circostanza, un “processo verbale di chiusura delle attività di controllo”, tutelando invece l’effettività del contraddittorio endoprocedimentale, e lasciando alla dialettica delle relative allegazioni in giudizio – nei casi di impugnazione - la dimostrazione se questo è stato o meno in concreto rispettato, e in caso contrario se il contribuente aveva delle ragioni la cui prospettazione avrebbe potuto far assumere al provvedimento amministrativo un contenuto diverso, limitando solo a questi casi l’annullamento dell’atto impugnato, in relazione a tutti i tributi e non solo a quelli “armonizzati”.

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