Gli accertamenti fiscali, ormai da molto tempo, sono sempre più rivolti, anziché alla ricchezza nascosta, alla contestazione di quella dichiarata. E uno dei riflessi più preoccupanti di questo fenomeno riguarda la deducibilità di costi che hanno originato ricavi tassabili per una controparte del contribuente, o che secondo la stessa contestazione avrebbero dovuto essere sostenuti e dedotti da un diverso soggetto.

Si pensi ai casi in cui l’Agenzia delle Entrate sindaca ad esempio la deducibilità dei compensi amministratori, vuoi perché ritenuti troppo elevati (e quindi asseritamente “non inerenti” all’impresa sotto un profilo quantitativo), oppure erogati in assenza di una formale delibera di distribuzione (facendo valere un vizio civilistico di forma estraneo al tema della deducibilità fiscale), o ancora – come accaduto da ultimo – perché erogati ad amministratori “di comodo”, cioè ritenuti privi di effettivi poteri decisionali, ancora una volta sotto il profilo dell’inerenza (come se il solo far parte del consiglio di amministrazione, con i relativi poteri di voto e di impulso, non fosse ragione sufficiente per attribuire contenuto concreto alla funzione svolta).

Ma si pensi ancora allle frequenti contestazioni di inerenza nei gruppi di società, in cui viene imputato a una certa consociata di aver dedotto costi che invece inerivano all’attività di una diversa consociata.

Lo sconcerto che queste riprese generano riguarda in primo luogo la loro stessa ragion d’essere, che si basa su un concetto distorto di “inerenza” all’impresa. Ma l’aspetto più subdolo è lo sconquasso che queste rettifiche provocano sul piano della corretta determinazione dei tributi: la concezione “atomistica” dell’attività di accertamento, per cui l’Amministrazione limita il “campo di gioco” allo specifico contribuente accertato in relazione a quel certo periodo di imposta, impedisce di attribuire rilevanza alle conseguenze che, a cascata, derivano dall’attività accertativa, si segno favorevole ai privati. E così, se si nega la deducibilità di un costo in capo a un soggetto, occorrerebbe coerentemente escludere la tassabilità del correlativo ricavo dichiarato dalla sua controparte, almeno tutte le volte in cui questo “aggiustamento corrispondente” derivi dalla stessa impostazione logica del rilievo.

Se si nega che un compenso erogato all’amministrazione in mancanza di una formale delibera di distribuzione sia affetto da nullità assoluta e quindi ripetibile e precario, occorre coerentemente – dopo aver ripreso a tassazione il costo dedotto dalla società – riconoscere il rimborso dell’Irpef e dei contributi previdenziali pagati dall’amministratore. Se si disconosce la deducibilità del compenso erogato all’amministratore “di comodo”, per non aver questi svolto alcuna funzione, gli si deve parimenti restituire Irpef e contribuzione previdenziale, giacché lo stesso avrebbe allora ricevuto una liberalità e non un reddito tassabile. Tuttalpiù, se l’amministratore era anche socio, avrà ricevuto un utile, tassabile come tale, dunque con restituzione almeno parziale di quanto versato all’erario.

Lo stesso dicasi poi con riguardo alle contestazioni di inerenza nei gruppi societari: se il costo è stato dedotto dalla società sbagliata, è insito nella stessa motivazione dell’accertamento il diritto di deduzione in capo a una diversa società del gruppo.

Con questo non si intende affermare l’esistenza nell’ordinamento di un millimetrico e universale principio di simmetria dei flussi reddituali, per cui ad ogni rettifica deve corrispondere una rettifica uguale e contraria. Potrebbe infatti benissimo accadere che un’impresa sostenga un costo che in realtà deve essere reso indeducibile, ferma restando la sua tassabilità in capo a un diverso soggetto (come accade nella deduzione di spese personali addossate all’impresa).

Quel che però si può certamente pretendere è che le rettifiche fiscali non vengano svolte a compartimenti stagni, a senso unico, e che ogniqualvolta la contestazione si basi su determinati presupposti fattuali e giuridici, se ne tenga coerentemente conto anche per i suoi riflessi su altri soggetti (le altre società del gruppo, le controparti contrattuali del contribuente, etc.).

Si potrebbe al riguardo prendere spunto dalle norme pur esistenti per alcuni peculiari contesti, come in materia di transfer pricing e “correlative adjustments” previsti dai trattati bilaterali contro le doppie imposizioni, o nella norma antielusiva che impone all’Amministrazione di tener conto, a scomputo delle imposte dovute dal contribuente accertato, di quelle pagate anche da altri soggetti sull’operazione oggetto di contestazione.

Se a qualcuno interessasse davvero introdurre degli elementi di riforma nel sistema, questo sarebbe un buon punto da cui partire: imporre all’Amministrazione finanziaria di tener conto delle conseguenze dei propri atti accertativi anche nella sfera di altri soggetti, o comunque attribuire a questi ultimi un diritto al rimborso condizionato all'esito dell'accertamento.

Ci si accorgerebbe che molte rettifiche fiscali si risolverebbero in una partita di giro, in un gioco “a somma zero” o addirittura negativa, in cui alla ripresa fiscale in capo a un soggetto conseguirebbe la restituzione di imposte per un diverso soggetto. E si “costringerebbe” così la stessa Amministrazione a ripensare il proprio ruolo, a confrontarsi davvero con l’evasione da occultamento, anziché continuare a cavillare su ricchezze già dichiarate e tassate, con inevitabili ricadute negative sull’intero sistema economico.

Rebus sic stantibus, invece, queste rettifiche provocano clamorose doppie imposizioni, “gonfiando” gli imponibili e il gettito a solo beneficio delle statistiche, lasciando l’amaro in bocca e la sensazione di un solco che sempre più si allarga tra “evasori” e “tartassati”.

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