La sentenza della Commissione tributaria provinciale di Ancona, pubblicata qualche giorno fa da Il Sole 24 ore, si riferiva all’accertamento di omessa fatturazione di compensi da parte di un notaio, il quale, pur risultando “congruo” rispetto allo studio di settore, evidenziava – a quanto pare – un indice di resa oraria per addetto “non coerente” rispetto all’intervallo stabilito dallo studio medesimo.

Si trattava dunque di un accertamento presuntivo, mentre non è chiaro dalla sentenza se fossero stati riscontrati analitici indizi o prove dirette dell’evasione. Peraltro l’attività notarile è sotto questo profilo a “basso rischio” di occultamento, posto l’obbligo di repertoriare tutti gli atti redatti dal notaio e dunque la possibilità di un agevole riscontro tra prestazioni effettuate ai clienti e fatture emesse ai medesimi, tema che risulta peraltro essere stato introdotto nel giudizio, anche se non sappiamo esattamente come.

Il contribuente si era infatti difeso anche affermando che la mancata percezione di onorari o il loro ammontare irrisorio, nei confronti di alcuni clienti, trovava ragion d’essere nei rapporti di consuetudine e anche di amicizia creatisi nel tempo, nonché per ragioni di cortesia e convenienza sociale, nei confronti di persone alle quali il notaio era legato da rapporti di collaborazione o di gratitudine.

A questo punto ci sarebbe dovuti aspettare un riscontro, nella tipica dialettica del giudizio di fatto, della plausibilità di tale asserzione, elettivamente in ordine alla numerosità e frequenza di tali situazioni rispetto al totale delle prestazioni rese dal notaio, nonché alla distanza dei compensi percepiti rispetto alle indicazioni tariffarie, anche eventualmente sentendo direttamente i soggetti con i quali il notaio asseriva di intrattenere rapporti di consuetudine ed amicizia, onde verificare la plausibilità di tali affermazioni. Per intenderci, un conto è asserire di aver effettuato 5 prestazioni gratuite su 100, altro di averne fatte 50 su 100. Un conto è credere che il professionista abbia tra la propria clientela alcuni amici, altro che abbia una clientela in gran parte formata da amici.

La mancata fatturazione di un certo numero di prestazioni o l’esiguità dei corrispettivi richiesti per altre prestazioni, se non ritenute credibili, avrebbero potuto corroborare la presunzione di evasione, ritenendo cioè che il notaio avesse in realtà incassato delle prestazioni “in nero”.

E invece i giudici, anziché verificare la credibilità dell’affermazione del notaio in ordine all’asserita gratuità di una parte delle prestazioni, la dà per presupposta e dimostrata, ma vi ricollega un obbligo (in realtà inesistente) di fatturazione.

Secondo i giudici, infatti, “il contribuente pretenderebbe di omaggiare clienti/amici accollandone l’onere alla collettività dei cittadini e non già a se stesso. Il professionista, se avesse voluto omaggiare i clienti/amici, avrebbe dovuto regolarmente fatturare i compensi declinandone il pagamento ed accollandosi l’onere fiscale che, invece, ha accollato allo Stato e quindi a tutti i cittadini contribuenti”.

In questa affermazione, che mescola ignoranza delle leggi tributarie e abborracciate considerazioni equitative da autobus, si ritrova tutta l’inadeguatezza dell’attuale sistema di giustizia tributaria, sulla cui reale possibilità di riforma è meglio a mio avviso non farsi troppe illusioni.

È ovvio, come peraltro facilmente intuibile, che per un professionista non esiste alcun obbligo di emettere una fattura o di dichiarare un compenso per una prestazione gratuita. Ai fini Iva rilevano le prestazioni di servizi effettuate verso corrispettivo (art. 3 primo comma del Dpr 63371972: “Costituiscono prestazioni di servizi le prestazioni verso corrispettivo…”), l’autoconsumo e la tassabilità delle prestazioni rese a titolo gratuito vale per gli imprenditori ma non per i lavoratori autonomi (art. 3 comma 3), le prestazioni di servizi si considerano effettuate (e quindi devono essere fatturate) solo all’atto del pagamento del corrispettivo (art. 6 comma 3). Prima del pagamento, una prestazione di servizi rilevante ai fini iva non viene nemmeno a sorgere.

E lo stesso vale anche ai fini delle imposte sui redditi (art. 54 del Tuir: “Il reddito derivante dall’esercizio di arti e professioni è costituito dalla differenza tra l’ammontare dei compensi in denaro o in natura percepiti nel periodo di imposta… e quello delle spese sostenute nel periodo stesso…”)

Quelle evidenziate dai giudici anconetani sono lacune che impedirebbero a uno studente di superare l’esame universitario di diritto tributario: eppure i giudici non hanno certo dovuto rispondere a una domanda a bruciapelo, giacché avevano tutto il tempo, ove mai ci fosse un dubbio, di documentarsi.

Priva di senso è dunque la pretesa secondo cui il contribuente avrebbe dovuto fatturare le prestazioni gratuite, e accollarsi l’imposta, ovviamente senza potersene rivalere sul cliente (visto che si discute di prestazioni rese a titolo gratuito).

Sembra che i giudici abbiano ritenuto che, in questo modo, il notaio avesse posto a carico della collettività l’onere fiscale connesso alla mancata esazione dell’Iva sulla prestazione. Troppo raffinato per i giudici riflettere sul fatto che la tassabilità delle prestazioni gratuite e di autoconsumo, per gli imprenditori, si spiega per esigenze di “chiusura”, al fine di evitare che determinati beni o servizi, impiegati nella prestazione gratuita e la cui imposta è stata detratta, giungano al consumo detassati. Se il barista o il ristoratore si portasse a casa onde consumare con i familiari alimenti e bevandi sul cui acquisto ha detratto l’imposta, finirebbe per scardinare il meccanismo applicativo dell’Iva, ponendo in essere atti di consumo finale detassati. E così si spiega la peculiare norma sull’autoconsumo degli imprenditori, che invece non è stata replicata per i professionisti, attesa la bassa incidenza per gli stessi degli acquisti a monte, trattandosi di servizi ad alto contenuto intellettuale in cui la componente di trasformazione della materia è inesistente o trascurabile.

Quanto all’imposta sul reddito, mancando un corrispettivo, dunque un incremento di ricchezza e un reddito per il professionista, non vi era alcun “onere fiscale” accollato dal notaio allo Stato o alla collettività: altrimenti si dovrebbero tassare anche gli individui che vivono senza lavorare, o lavorano volontariamente al di sotto delle loro possibilità, rinunciando così a generare dei redditi assoggettabili all’imposta.

La sentenza di Ancona finisce così per inscriversi, senza minimamente rendersene conto, nel solco delle ineffabili teorie sull’endowment taxation, secondo le quali gli individui dovrebbero essere tassati non già sui loro redditi effettivi, bensì sul loro reddito potenziale, cioè su quanto potrebbero ricavare dal mercato esercitando al massimo le proprie capacità ed attitudini.

Provateci voi a spiegare tutto questo ai giudici, io ci rinuncio.

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