Italia fatta in casa e tasse (alesina e ichino)

.Quando cuciniamo gli spaghetti per la cena facciamo un lavoro il cui valore non viene incluso nel conteggio statistico del Prodotto interno lordo. Se, invece di cucinare, andassimo a mangiare gli spaghetti al ristorante, il lavoro di chi li prepara e di chi ce li serve sarebbe incluso nel Pil.”.

Il libro di Alesina e Ichino( “L'Italia fatta in casa. Indagine sulla vera ricchezza degli italiani”, 145 pagg., Mondadori, 2009), partendo dal presupposto che in Italia si produce in casa e per la casa molto più che in altri Paesi, analizza le cause e le conseguenze di questa anomalia. Le cause sono storiche, prevalentemente. La storia remota e recente spiega perché nel nostro Paese le istituzioni non riescono a cambiare la società ma è la società a condizionare il buono o cattivo andamento delle istituzioni: coloro che non appartengono alla propria famiglia (istituzioni incluse) sono estranei dai quali diffidare, che molto probabilmente appena possibile ci fregheranno e che quindi non è sbagliato tentare di fregare noi per primi. E' quel “familismo amorale” che spiega anche come mai in Italia, al contrario che in altri Paesi, le case luccicano come specchi mentre insozzare le strade delle città con cicche e cartacce è un'abitudine non così deplorevole. Alcune regioni risentono maggiormente di questi legami familiari intensi e dello scarso investimento in “capitale sociale”, ma in generale l'Italia intera ne è più condizionata degli altri Paesi, europei e non solo.

Le conseguenze di quest'Italia fatta in casa sono la visione della famiglia come ente che eroga servizi sociali al posto dello Stato e un alto tasso di lavoro domestico (invisibile per il mercato) svolto prevalentemente dalle donne. Quando la famiglia prende il posto dello Stato nell'erogazione dei servizi sociali i figli avranno la tendenza a rimanere quanto più vicino possibile ai genitori e per più tempo: la scelta dell'università sarà condizionata non dalla qualità dell'offerta ma dalla vicinanza, in un contesto in cui il sistema universitario pubblico, grazie anche al mito del decentramento, alimenta la finzione che tutte le università sono uguali. La finzione dell'egualitarismo educativo e l'immobilità degli studenti sono due facce della stessa medaglia che derivano dall'intensità dei legami familiari.

Chi maggiormente sconta questo stile di vita sono le donne che, un po' per scelta, un po' per retaggio culturale, lavorano più degli uomini (calcolando anche il tempo dedicato al lavoro “domestico”) e spesso sacrificano le loro capacità professionali per dedicarsi esclusivamente alla cura della casa, dei figli, degli anziani.

Alesina e Ichino propongono una soluzione che dovrebbe incentivare la “liberazione delle donne” dal lavoro in casa: la riduzione delle tasse sul reddito da lavoro per le donne, compensando il minor introito per l'erario, se possibile con una riduzione di spesa pubblica; altrimenti aumentando leggermente le imposte sui redditi degli uomini. Poiché l'offerta di lavoro femminile è più elastica, cioè reagisce più facilmente alle imposte, il gettito fiscale prodotto dalle donne non diminuirebbe, secondo gli autori, poiché aumenterebbe la partecipazione femminile al lavoro. Ne deriverebbe un aumento del reddito disponibile medio delle famiglie, con conseguente aumento di capacità di spesa (anche per acquistare quei servizi che le donne non produrrebbero più in casa) e quindi un aumento del Pil nazionale.

Al di là dei dati econometrici contenuti (soprattutto nel confronto con altri Paesi) e dei molti spunti offerti (ad esempio sulla qualità delle università o sull'impresa familiare, condannata al nanismo, fin quando ci ostineremo a tramandare ai figli, oltre alle rendite dell'azienda di famiglia, anche la gestione) l'impressione è che alcune analisi e alcune soluzioni siano più che altro suggestioni. Gradevoli, suggestive, ma semplicistiche rispetto a una realtà molto più articolata.

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