Perchè la pubblica opinione non capisce le aziende come organizzazioni?

 

Gli esseri umani tendono istintivamente a ricondurre le proprie esperienze agli schemi cognitivi di cui dispongono, specie se non si offrono loro spiegazioni migliori. Ciò accade anche per le aziende pluripersonali, cioè gruppi di persone aggregate dall’obiettivo del prodotto, con una gestione  amministrativa spersonalizzata, dove ciascuno ha un preciso compito  da svolgere.

In assenza di spiegazioni sociali di queste caratteristiche si sono creati nell’opinione pubblica vari equivoci ed incomprensioni

sul concetto di azienda. L’equivoco è dovuto anche alla presenza nell’esperienza collettiva degli antichi artigiani, spesso iniziatori delle attività aziendali; questo ha spinto a considerare le aziende in modo antropomorfico come “omoni un po' spregiudicati che agiscono per profitto”; non ci si accorge in questo modo di presupporre che una azienda possa magicamente animarsi e prendere vita propria, provare sentimenti, o avvertendo le classiche pulsioni umane, come mangiare , dormire fare vita sociale ecc.. Quest equivoci hanno portato in dote degli effetti aberranti, sbiadendo sempre di più la linea di demarcazione tra aziende pluripersonali e lavoro indipendente svolto dal singolo artigiano o professionista, con serie ripercussioni percepibili in più rami degli studi sociali, compreso il diritto tributario.

L’opinione pubblica, e di rimando anche la classe dirigente politica che ne è lo specchio, hanno attribuito alle organizzazioni aziendali pluripersonali  tratti morali tipici della specie umana come “l’onesta” e la “disonestà”.

Questa personificazione contribuisce a un clima “antiaziendale” in cui le aziende pluripersonali vengono variamente criminalizzate, anche nella veste di “grandi evasori” , capri espiatori di colpe di piccoli commercianti, artigiani, professionisti o al massimo dei loro titolari, comunque persone fisiche, le uniche ad aver bisogno di risparmiare le imposte per alimentare bisogni personali di cui, per definizione, le organizzazioni sono prive. 

Tutto ciò non fa che accentuare un fenomeno già molto diffuso nel nostro paese, ovvero quello della scarsa presenza di grandi aziende in grado di competere con le grandi multinazionali di altri paesi. Questa tendenza impedisce anche a settori qualificati della pubblica opinione di percepire sia la vera essenza delle grandi aziende, ovvero l’elemento socio organizzativo che le caratterizza, sia l’immenso apporto che queste ultime danno soprattutto alla determinazione tributaria dei presupposti economici d’imposta; rimane oscuro non solo all’uomo della strada, ma anche ad esponenti della classe dirigente,  l’utilizzo che il fisco fa della contabilità delle aziende pluripersonali, cui è di fatto demandata l’applicazione delle imposte. Più che “grandi evasori” le organizzazioni pluripersonali sono i grandi “esattori “ del terzo millennio, tramite le trattenute che effettuano in busta paga ai propri collaboratori e l’IVA che applicano sulle vendite ai consumatori. Proprio la natura spersonalizzata dell’amministrazione contabile delle grandi aziende ostacola l’occultamento al fisco dei presupposti economici d’imposta, anche da parte dei relativi titolari. Le ragioni di questo disorientamento sociale sono plurime, e tutte concorrono tra di loro. Alla mancanza di spiegazioni da parte degli studiosi di economia generale e aziendale si aggiunge la strumentalizzazione dei mass media. Serve una comunicazione congiunta degli studi sociali suddetti per correggere l’atteggiamento istintivo della pubblica opinione sulla vera essenza delle grandi imprese. 

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